Buongiorno, e bentornati su America-Cina per un’altra settimana a spasso fra i poli di questa newsletter: Pechino, che trascura i rapporti commerciali con Mosca; Washington, che intravede i rischi delle reti 5G cinesi; e ovviamente Kiev, che — almeno secondo il presidente Zelensky — non rinuncerà mai alla sua indipendenza.
Il nostro viaggio odierno parte da qua, passando poi per teatri che rinascono, stagioni delle fiamme (sopra, nella foto Ap di Ethan Swope, un pompiere cerca di spegnere l’incendio nella Mariposa County, in California ), leader silenziosi, orologi della democrazia che girano al contrario, missioni non ancora concluse, sensibilità e autocensura editoriale. Sono nove sassolini e un taccuino, che ci aiutano a restare al passo con il mondo, a capire le forze che lo modellano.
Per oggi è tutto e, come direbbe uno dei protagonisti di questa missiva:
La newsletter America-Cina ed è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it .
Il presidente russo Vladimir Putin a Pechino insieme a Xi Jinping (foto Epa/Alexei Druzhinin)
La partnership «senza limiti» tra Russia e Cina? «Si tratta di un equivoco», sostiene l’ambasciatore cinese a Washington, Qin Gang. Parlando all’Aspen Institute Security Forum, il diplomatico ha ricordato che «la relazione non è un’alleanza» e che la Repubblica popolare cinese non ha alcuna intenzione di arrivare a «uno scontro» con l’Occidente a proposito della «crisi ucraina». Sua eccellenza Qin Gang insiste a non definire «invasione» la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina, ma cerca di non abbracciare troppo strettamente i partner russi . Una prova concreta e notevole di questo atteggiamento prudentissimo viene da uno studio dell’Università Fudan di Shanghai. I dati rivelano che nei primi sei mesi di quest’anno gli investimenti cinesi per la Belt and Road Initiative (le nuove Vie della Seta lanciate da Xi) si sono praticamente ridotti a zero nel territorio della Federazione russa .
Pechino sta evidentemente manovrando per evitare di incorrere in isolamento diplomatico e possibili sanzioni commerciali da parte occidentale. La Cina definisce illegittime e controproducenti le sanzioni, ma apparentemente sta ben attenta a non aggirarle. È vero che la Russia è diventata in questi ultimi mesi il suo primo fornitore di petrolio, ma il motivo, secondo gli analisti, non è la presunta amicizia fraterna tra Putin e Xi , piuttosto il fatto che Mosca sta vendendo a prezzo scontato il suo greggio. Le aziende tecnologiche cinesi si sono ben guardate dal correre in soccorso dei russi e anzi si sono parzialmente ritirate dal mercato del Paese sottoposto a embargo internazionale.
E ora arrivano i dati sulla Belt and Road raccolti dalla Fudan di Shanghai e mostrati al Financial Times . Il progetto fu lanciato da Xi Jinping nel 2013 e da allora la Cina ha cercato di associare la bellezza di 147 Paesi nel mondo , impegnandosi finora a spendere sulle (infinite) Vie della Seta 923 miliardi di dollari, tra costruzione di infrastrutture (561 miliardi) e investimenti (371 miliardi). Tra il 2014 e il 2021, sulle Vie che attraversano la Russia i cinesi si erano impegnati in totale per circa 45 di miliardi di dollari , circa 6 miliardi all’anno in media.
Nel 2020 e 2021 c’era stato un calo a 2 miliardi, dovuto alla pandemia. Ma nel primo semestre del 2022 per la prima volta non sono stati registrati investimenti o piani per la costruzione di infrastrutture. Nello stesso periodo, Pechino ha cominciato a guardare al Medio Oriente : con 10,5 miliardi di dollari, nel 2021 è stato l’Iraq il primo beneficiario dei fondi spesi dalla Cina per la Belt and Road. Nel primo semestre del 2022 all’Arabia Saudita sono andati 5,5 miliardi.
Anno 2020, piena pandemia. L’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump tuona pubblicamente contro la cinese Huawei , leader mondiale delle reti di telecomunicazioni: no al 5G cinese. Il Canada e la Gran Bretagna si allineano. L’Europa no. Ora la Cnn con un’inchiesta esclusiva ha scoperto che non era una banale questione commerciale o una strategia di supremazia tecnologica: alcune reti cinesi situate già in territorio americano sarebbero «capaci di intercettare le comunicazioni militari americane» sino al punto, riferisce l’indagine dell’Fbi, di «bloccare le procedure legate all’arsenale strategico e tattico nucleare».
Non può essere un caso che il leak sia arrivato proprio ora : dopo 5 mesi di guerra russa in Ucraina, sebbene a singhiozzo, l’incubo di una escalation militare è emerso nelle parole dei falchi di Putin. E, se quanto trapela dall’Fbi fosse vero, la Cina di Xi Jinping avrebbe in mano il potere più temibile : la capacità di bloccare l’effetto deterrenza delle testate nucleari nei due blocchi contrapposti. Huawei ha smentito di avere queste capacità. E lo stesso governo cinese ha detto di non poter operare nello spettro esclusivo del ministero della Difesa Usa.
Ma i precedenti non mancano : nel 2017 l’Fbi bloccò un progetto faraonico per costruire un giardino nel punto più alto di Washington grazie a 100 milioni regalati generosamente da Pechino agli amici americani. I servizi segreti si insospettirono leggendo che la pagoda sita nel punto più alto della collinetta avrebbe dovuto essere assemblata con pezzi portati in territorio Usa dentro valigette diplomatiche. Storie da guerra fredda. Chiaramente il giardino non prese mai forma.
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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky
Il pathos. Le parole scandite bene. Le pause. Il presidente Volodymyr Zelensky nel messaggio video serale di ieri sera al suo popolo ha annunciato una nuova data da segnare sul calendario del Paese . «Domani (oggi per chi legge, ndr ) — ha detto -— inizia una settimana importante e simbolica. La settimana in cui celebreremo per la prima volta la Giornata della statualità ucraina, il 28 luglio . Festeggeremo in un momento di una guerra così brutale che è al suo sesto mese. Dopo otto anni di guerra nel Donbass. Ma festeggeremo. Nonostante tutto. Perché gli ucraini non possono essere distrutti».
Zelensky ha parlato poi del «nostro popolo in battaglia» che ha «lo stesso coraggio, lo stesso atteggiamento nei confronti della vita e nei confronti dell’Ucraina e del nemico» dei «nostri guerrieri» di centinaia di anni fa. «Soltanto chi non conosce la verità della storia e non ne sente il significato può decidere di attaccarci» ha chiarito il presidente ucraino. «Dopo tutto quello che ha passato la nostra gente, dopo tutto quello che abbiamo imparato nel corso dei secoli… Gli ucraini non rinunceranno mai alla loro indipendenza . E non si romperanno dall’interno come è successo più di una volta. Non questa volta!».
Come sempre Zelensky ha parlato anche di vittoria : «Anche gli occupanti ammettono che vinceremo. Lo sentiamo nelle loro conversazioni, in quello che dicono ai loro cari quando li contattano. Per cui non rallentiamo. Stiamo facendo di tutto per infliggere le maggiori perdite possibili al nemico e per raccogliere quanto più sostegno possibile per l’Ucraina».
Un sistema Himars americano al World Defense Show in Arabia Saudita (foto Afp/Fayez Nureldine)
Inizia il sesto mese di guerra, Russia e Ucraina si usurano a vicenda colpendosi a ripetizione da lontano . Grande uso di artiglierie, missili, bombe. Pochi successi degli aggressori in Donbass mentre i resistenti si preparano ad una possibile offensiva a sud, regione di Kherson. Con qualche operazione e molte dichiarazioni , a volte premature. Proseguono gli atti di sabotaggio dei partigiani: foto diffuse in rete mostrano i danni alla ferrovia nell’area di Melitopol.
Sul nostro taccuino una «parola»: gradualismo . Gli Usa, insieme ai partner Nato, tendono a fornire armi migliori a Kiev soltanto dopo e non prima di avanzate sensibili dei russi. Gli ucraini si lamentano di questo e il Washington Post raccoglie l’esasperazione. Un tema legato ai super citati lanciarazzi a lungo raggio Himars (quasi 80 chilometri, molto precisi). L’esercito di Zelensky ne ha ricevuti 16 esemplari , ne vorrebbe di più insieme ad altri cannoni da 155 mm. Fonti americane spiegano che esistono due problemi. Il primo è politico : non vogliono accrescere lo scontro con Mosca, infatti la Casa Bianca ha escluso di spedire proiettili con capacità di 300 chilometri. Il secondo è tecnico : serve tempo per addestrare i militari, gli ucraini devono essere in grado di assorbirli, alla lunga potrebbe sorgere un problema di scorte di munizioni.
«Il sacro suolo dell’Egitto è invaso Dai barbari Etiópi — i nostri campi / Fur devastati… arse le messi… e baldi/ Della facil vittoria, i predatori. /Già marciano su Tebe… / Già Tebe è in armi e dalle cento porte. Sul barbaro invasore. Proromperà, guerra recando e morte» .
Si alza il sipario di velluto rosso dell’Opera di Odessa . È il giorno dopo l’attacco di Putin, schiaffo in faccia all’accordo sul grano mentre le bombe incendiarie russe ancora bruciano i campi di tutta Ucraina. Atto primo dell’Aida. Doveva andare in scena il 25 di febbraio. Ma l’Opera venne chiusa . Circondata da sacchi di sabbia, blindata per proteggerla dal barbaro invasore russo. Poi un mese fa la decisione, il teatro può riaprire. Anzi, deve. E l’Aida torna in scena dopo cinque mesi esatti di guerra. Non ha paura Odessa anche se Mosca ancora la minaccia coi suoi missili Kalibr caricati sui sottomarini al largo nel Mar Nero. La platea e i palchi sono al completo. Per il biglietto più caro si pagano 400 grivne, poco meno di 10 euro. «Se durante lo spettacolo dovesse iniziare un’allerta aerea gli spettatori sono pregati di scendere nel rifugio», annuncia una voce in ucraino, inglese e poi in russo. Un’anomalia per Odessa che sempre la lingua degli zar ha parlato.
E mentre Aida si dispera per Radames che da lei la ragione di Stato separa, fuori dall’Opera Caterina II fatta statua soffre con il braccio rivolto verso il suo porto ferito. Scendere per la scalinata che porta il nome del suo amante Potemkin ancora non è concesso, pena l’arresto. Perché conserva sempre i suoi segreti Odessa, mentre prova a far finta che la guerra non esista . «Da quando abbiamo riaperto, tutte le date sono andate esaurite», spiega Helena responsabile della cassa. Barocco viennese e rococò francese, l’Opera è tripudio d’oro e velluto russo . A corredo di ogni scalinata, due specchi. «Magici», svela Andreina, responsabile del foyer. Per la loro conformazione sembrano una porta verso una nuova dimensione. E «chi ci si riflette sembra più bello grazie alla luce emanata dalle foglie d’oro che lo incorniciano».
Seconda solo alla Scala di Milano come perfezione acustica , la «torta» — come gli odessiti chiamano il loro teatro — sa farsi gustare. «Perché gli spettatori fossero a proprio agio durante l’estate, gli operai facevano scendere carri di ghiaccio e paglia giù per un pozzo di 11 metri , poi li conducevano attraverso un tunnel fino a un seminterrato sotto la sala, dove l’aria fresca saliva dalle bocchette sotto i sedili», racconta ancora Andreina. Anche l’impianto elettrico dell’Opera era all’avanguardia quando venne costruita a tempo di record nel 1887 . Ma all’epoca le lampadine non erano così forti come oggi. Così gli architetti escogitarono uno stratagemma e misero sotto le applique sullo scalone dei putti a reggere degli specchi che riflettessero la luce.
Nel piccolo museo allestito vicino al foyer, gli abiti di scena scintillano ancora tempestati di strass. A fianco, le scarpe di raso rosa con le punte di una prima di Gisele e le vecchie foto d’epoca che mostrano l’Opera nel giorno della liberazione nel 1944 . Barbari invasori allora erano i nazisti. Oggi sono i russi. Paradossi della storia. Che a Odessa però — ne sono sicure Helena e Andreina — non interessano. «Perché Odessa mai sarà come Aida, mai sarà schiava» . A Odessa interessa vivere.
Una strada fra le fiamme nella Mariposa County, in California (foto Ap/Noah Berger)
L’hanno chiamato «Oak Fire», si muove veloce e ha bruciato finora 8 mila ettari di boschi e case nella contea di Mariposa in California: ieri notte le autorità hanno comunicato che «l’incendio delle querce», partito venerdì, era «al 100% vivo e vegeto». Seimila persone evacuate, oltre tre mila case minacciate dal fuoco che corre spinto dal vento e dalle alte temperature. Come da noi ci sono 38 gradi nella Mariposa County, la contea delle farfalle: le fiamme verso nord-est hanno intaccato i santuari naturali dello Yosemite National Park , dove pompieri e guardie forestali stanno cercando di togliere all’incendio legna per i suoi denti, rimuovendo la vegetazione bassa che contribuisce ad alimentarlo.
Le sequoie più alte e più vecchie dello Yosemite (compresa la decana Grizzly Giant, che ha oltre 2 millenni di età) erano uscite indenni da un altro incendio scoppiato poche settimane fa, di cui avevamo dato conto nella newsletter. Adesso nuovo allarme. Dalla California all’Europa, la stagione del fuoco è un altro segnale delle conseguenze del riscaldamento globale dovuto alle emissioni prodotte dall’uomo: negli Stati Uniti il presidente Joe Biden vuole dichiarare lo «stato di emergenza climatica» per avere mani più libere e intervenire con misure necessarie a frenare il global warming .
Per ora a frenare il fuoco che attacca le sequoie ci dovranno pensare i pompieri , sul terreno e dal cielo, aiutati paradossalmente dai «roghi» degli anni passati: sembra infatti che l’Oak Fire si stia dirigendo verso una zona già in parte incenerita da precedenti incendi . Non è una grande consolazione, ma questo dovrebbe togliere combustibile alla corsa delle fiamme.
Biden, positivo al Covid, collegato da remoto con i suoi collaboratori (foto Ap/Andrew Harnik)
La Commissione di inchiesta sul 6 gennaio sta preparando un rumoroso rientro per settembre. Ieri, domenica 24 luglio, la repubblicana Liz Cheney ha detto alla Cnn che la Commissione, di cui è vice presidente, è «pronta a convocare di imperio (subpoena, ndr ) Ginni Thomas» , vale a dire la moglie del giudice della Corte Suprema Clarence Thomas. Le mail e altri documenti già in possesso dell’organismo parlamentare mostrano come Ginni abbia avuto intensi contatti con lo stretto giro dei «golpisti» trumpiani , a cominciare da Rudy Giuliani e dall’avvocato John Eastman, la mente giuridica della manovra per annullare il risultato elettorale.
Ma all’attivismo della Commissione corrisponde una sostanziale latitanza della Casa Bianca . Joe Biden era intervenuto il 10 giugno, quando cominciarono le audizioni trasmesse in diretta televisiva nell’ora di massimo ascolto. Parole dure: «Gli americani devono sapere che cosa è successo il 6 gennaio, perché quelle forze sono ancora pericolosamente all’opera». Da allora, però, il presidente degli Stati Uniti si è defilato , concentrandosi sulle crisi interne e sugli impegni internazionali. Un atteggiamento giustificato da ragioni istituzionali: Biden non vuole interferire con l’iniziativa del Congresso e non vuole neanche condizionare eventuali decisioni dell’attorney general, Merrick Garland.
Secondo il sito The Hill , gran parte dei parlamentari democratici ritiene che sia una posizione troppo prudente . Karine Jean-Pierre, portavoce della Casa Bianca, osserva come sarebbe sbagliato «politicizzare» l’inchiesta parlamentare. Ma il punto è che questa indagine è già abbondantemente «politicizzata». Donald Trump ha inserito Cheney e gli altri deputati nel repertorio delle figure da insultare nei comizi elettorali . E molti candidati repubblicani faranno la stessa cosa nella campagna per le elezioni di midterm.
Si è già creata, quindi, una situazione asimmetrica : Biden che si attiene scrupolosamente all’etica istituzionale (non ci sono regole che gli proibirebbero di intervenire sul tema); Trump che, dopo aver cercato di sovvertire il voto, ora prova a screditare la Commissione che indaga sui suoi misfatti . La svolta potrebbe arrivare con il via libera di Garland per l’incriminazione dell’ex presidente. Il ministro della Giustizia resta indecifrabile: «Noi non apriamo fascicoli in pubblico».
L’ex cantante hip-hop Phyo Zeya Thaw, poi deputato della Lega nazionale per la democrazia, la cui condanna a morte è stata eseguita oggi (foto Epa)
In Myanmar — l’ex Birmania — l’orologio della democrazia non si è soltanto fermato il 1° di febbraio dell’anno scorso con il colpo di Stato del generale Min Aung Hlaing. Ora ha preso a correre all’indietro. Quattro attivisti per i diritti umani — compreso un ex deputato — sono stati «giustiziati» nella prigione di Insein , vicino a Yangon (Rangoon) dopo un processo-farsa che li ha riconosciuti colpevoli di «gravi atti di terrorismo e violenza». Sono, queste, le prime esecuzioni capitali dal 1988 , ovvero da prima che i generali stessi, pressati dalla comunità internazionale, accettassero di intraprendere una difficile strada verso il ripristino dei meccanismi democratici. Al culmine di quel processo, nel 2010, Aung San Suu Kyi — che oggi ha 77 anni ed è nuovamente in prigione — era stata liberata, aprendo il Paese intero a un decennio di progresso, crescita economica e sociale.
Un anno fa, dopo elezioni ancora una volta vinte dalla Lega nazionale per la democrazia guidata dalla premio Nobel per la Pace, i generali hanno deciso che era venuto il momento di affossare tutte le conquiste garantite dal sistema democratico , compresa quella di tenere l’esercito nella caserme, e lasciare ai civili il compito di governare il Paese. Quello che è successo è noto : l’arresto della Signora (che da allora non è più stata in grado di comparire in pubblico o fare sentire la propria voce), la sua condanna a diversi anni di prigione sulla scorta di accuse ridicole, la repressione violenta e sanguinosa delle proteste anti regime.
Di fatto, oggi il Myanmar è in uno stato di guerra civile , con Tatmadaw, le Forze Armate nazionali, impegnata a combattere le milizie etniche rafforzate da migliaia di cittadini insorti contro i militari. La pena capitale inflitta ai quattro attivisti ha suscitato le proteste degli Stati Uniti e dell’Onu , oltre a quelle di Human Rights Watch e altre organizzazioni umanitarie. Difficile che i generali si spaventino. Invece è probabile che questa decisione abbia lo scopo di «mandare un chiaro avvertimento» ai potenziali oppositori e ridurli al silenzio. Questi i nomi degli attivisti giustiziati: Kyaw Min Yu, più noto come Jimmy Ko, l’ex cantante hip-hop Phyo Zeya Thaw, poi deputato dell’Nld, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw.
L’inviato speciale delle Nazioni Unite per il Myanmar, Tom Andrews, ha sollecitato «una risposta forte» : «Questa azione perversa deve segnare un punto di svolta per la comunità internazionale. Cosa deve fare di più la giunta prima che la comunità internazionale si decida ad agire con determinazione? — ha detto Andrews in una nota — Le uccisioni diffuse e sistematiche dei manifestanti, gli attacchi indiscriminati contro interi villaggi, e ora l’esecuzione di leader dell’opposizione richiedono una risposta immediata e risoluta da parte degli Stati membri dell’Onu. Lo status quo di inazione internazionale deve essere rigettato con forza». La Cina, dal canto suo, ha sollecitato il Paese a risolvere le proprie questioni «sulla base delle norme costituzionali» . E qui ritorniamo al punto di partenza.
Boris Johnson a bordo di un caccia della Raf (foto 10 Downing Street)
«Hasta la vista, baby!»: così si è congedato Boris Johnson in Parlamento , la settimana scorsa, con una criptica citazione da Terminator , la saga cinematografica con Arnold Schwarzenegger. Ma Johnson è un fine oratore e lui non butta lì le parole a caso : e Terminator è uno che torna sempre (l’altra sua frase clou è infatti «I’ll be back!»). Cosa avrà dunque in mente Boris? Forse la stessa cosa che passa per la testa agli oltre diecimila elettori conservatori che hanno già firmato una petizione per chiedere di reinserire Johnson nella corsa per la leadership , che si sta svolgendo in queste settimane e si concluderà a settembre col voto di tutti gli iscritti al partito. La raccolta di firme è stata lanciata da Lord Cruddas, uno dei maggiori finanziatori dei Tories, secondo cui «l’estromissione di Johnson da primo ministro da parte di una minoranza di parlamentari è profondamente anti-democratica: sfida la volontà del Paese e dei membri del partito conservatore che lo hanno eletto, equivale a un colpo di Stato».
Ieri il Mail on Sunday , la Bibbia degli elettori Tory, ha pubblicato un sondaggio condotto fra i conservatori che vede Johnson battere in popolarità entrambi i candidati alla sua successione , ossia Rishi Sunak e Liz Truss: Boris viene considerato una opzione migliore sia come primo ministro che come leader in grado di sconfiggere i laburisti. «Mi sa che abbiamo fatto una cazzata», ha sintetizzato un deputato citato dal Sunday Times . Nel suo discorso finale, Johnson ha proclamato «missione largamente compiuta… per ora» : un altro segnale che lui considera il suo lavoro non ancora finito. E con un’ulteriore citazione cinematografica, si è messo ai comandi di un caccia della Raf, facendosi fotografare in posa da Top Gun : un ruolo che Tom Cruise ha ripreso per il sequel Maverick .
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C’era l’Indice dei libri proibiti , che andava forte nell’Inquisizione e che la Chiesa ha soppresso solo nel 1966 : il primo, nel 1559, elencava semplicemente le pubblicazioni eretiche, ma presto la censura si allargò, comprendendo i testi dei protestanti e le carte degli astronomi , fino a che l’Index librorum prohibitorum contenne anche una specie di bibliografia licenziosa, fatta di opere anche lontanamente erotiche. Tra gli ultimi autori a venirvi inclusi, prima dell’abolizione, Simone de Beauvoir e André Gide, Jean-Paul Sartre e Alberto Moravia . Poco più di mezzo secolo dopo l’abrogazione dell’Indice , è la tesi del New York Times , torna nel mondo dell’editoria libraria una sorta di censura più pervasiva e meno esplicita , in forma soprattutto di autocensura: è, così l’editorialista Pamela Paul, il dilagare del linguaggio «corretto», dei contenuti non disturbanti, del letteralismo. Il pezzo si apre non a caso con Lolita , che quando uscì, negli anni Cinquanta, fu bandito in molti Paesi. Non negli Stati Uniti, dove trovò un editore, Walter Minton. Oggi lo troverebbe ancora?
Il plotone di figure professionali «censorie» come i sensitivity readers nelle case editrici non ne impedirebbe l’uscita? Il sensitivity reader è una figura editoriale sempre più diffusa : viene dall’editoria per ragazzi, e serviva a filtrare dalle pubblicazioni per i più giovani contenuti non adatti a loro. Ora non c’è quasi libro per adulti che non riceva una lettura analoga . La novità della censura, scrive Paul, è che stavolta arriva da sinistra: un saggio recente sull’aumento, nelle giovani ragazzine, di casi di disforia di genere, è stato boicottato da molti librai americani perché «transfobico». È giusto? Viceversa, è giusto che circoli ogni libro, ogni idea? Un dibattito millenario, ora nelle mani di pochi addetti ai lavori: i sensitivity reader , che dall’editoriale del New York Times escono più somiglianti a bruciatori di libri che a difensori dell’inclusività.
Grazie di averci letto fino in fondo. Buona settimana!